Mi chiamo Giulia, sono nata a Palermo nel 1992, e vi ho vissuto stabilmente fino ai 21 anni. La mia madrelingua è l’italiano. I miei genitori sono palermitani, e non si sono mai spostati dalla nostra città se non per brevi vacanze. Entrambi sono di madrelingua italiana: hanno frequentato insieme l’istituto tecnico-commerciale, dove hanno studiato inglese e spagnolo, ma con il tempo hanno dimenticato quasi tutto. Sono stati loro a insegnare a me e a mio fratello Emanuele l’italiano, e anche un po’ di siciliano, che capiscono ma che parlano solo un po’ nella varietà palermitana grazie all’eredità linguistica lasciatagli dai miei nonni. Mia mamma e mio papà infatti parlano sempre in italiano, ma usano il dialetto occasionalmente: mia mamma è una con lo scherzo un po’ vastaso, e usa il palermitano per aggiungere pepe alle sue battute. Mio papà invece è un tipo più malinconico, e senza accorgersene usa il siciliano quando parla di mio nonno Emanuele, suo papà, che gli manca tanto.
Eppure i miei nonni, con noi, non parlavano in siciliano. Non soltanto perlomeno. Quelle tre forze della natura (che duci che erano!) si erano fatti la Guerra e avevano studiato poco: mia nonna Dina aveva solo la terza elementare, mia nonna Michela la quinta, e corre voce che mio nonno Emanuele si fosse addirittura comprato la licenza media!
In misura diversa, hanno conosciuto la povertà, ma nonostante le difficoltà di gioventù, la fortuna ha girato dalla loro parte. Michelina, mia nonna materna, confezionava abiti da sposa per le ricche signore di Palermo. Di certo non persone con cui parlare in siciliano. Il nonno Emanuele è diventato agente di commercio (forse anche grazie al suo precedente acquisto!), e mia nonna Dina, sua moglie, si dedicava un po’ alla sartoria e un po’ alla bella vita, con i suoi abbonamenti al Teatro Massimo e la sua amata pelliccia di visone. Non parlavano in dialetto al lavoro, ma solo con rari amici e parenti: la vita li aveva abituati usare l’italiano.
Eppure, nei ricordi sfocati che inizio ad avere delle loro voci, qui e là il siciliano riaffiora: forti della loro esperienza di vita, si sentivano più solenni nell’impartire massime in siciliano (un siciliano meno “bastardo” di quello dei miei genitori), nel descrivere le feste di campagna e quelle in casa a Romagnolo, nel raccontare di quannu arrivarunu l’americani e accuminciarunu a jittari i cioccolatti d’i carri armati pi tutti i picciriddi.
Per loro il siciliano era la lingua dei padri. Una lingua atavica che ogni giorno voleva emergere non tanto nelle loro parole, quanto nelle loro cacuminali, nelle loro pigre i ed u, quando mia nonna Dina babbiava, quando il nonno Emanuele vuciava, o quando mia nonna Michela, a novant’anni, quasi non ci sentiva più, e con la sua vocina flebile diceva: «Chi dici?! ‘Un ci sentu!», e allora tutti noi passavamo al siciliano perché così invece sì che ci sentiva.
Fino alla scuola media, è stato questo l’unico siciliano con cui io ed mio fratello siamo stati a contatto: un siciliano à la carte, riservato a pochi momenti preziosi, che capivamo perfettamente e che ci faceva venire quasi fame, perché colorava di capunata e pasta ch’i sarde le nostre cene nazional-popolari. Un siciliano di zuccaru, che provavamo a imitare tra le risate della famiglia riunita attorno al povero capretto di Pasqua, ordinato per l’occasione dal nonno mesi e mesi prima ‘nna putia ‘i Ferrantello (immaginate qui un minimo di quattro enne e cinque erre).
Ma tutto perde d’innocenza, e anche il siciliano, per me come per mio fratello, stava per assumere una veste, oserei dire, meno folkloristica.
Mia mamma ha scelto insieme a me di iscrivermi in una scuola media che includeva nel percorso formativo diversi laboratori pomeridiani. Ma la sventurata aveva probabilmente sottovalutato che il bacino d’utenza della scuola abbracciasse zone di Palermo molto svantaggiate.
«Non fa niente. Devi imparare a stare con tutti», diceva quando le raccontavo che i miei compagni, maschi e femmine indifferentemente, parlavano sempre in palermitano — «Con i “trittonghi”», immaginava! —, non studiavano, avevano il papà carcerato e la mamma giovanissima.
E così, quei ragazzi di via Re Federico e via Malaspina sono diventati miei amici. Stare con loro è stato come fare una vacanza studio all’estero: finalmente potevo parlare in siciliano e, sì, anche sentirmi più forte. Perché il loro dialetto era diverso da quello della mia famiglia: era più sguaiato, più sanguigno, più cattivo… malacarne. Era il palermitano della strada, e purtroppo, a volte, della cattiva strada.
Pur non impedendomi di stare con loro, è stato proprio durante le medie che, per la prima volta, mia madre mi ha rimproverata dicendomi: «Giulia, parla in italiano!».
Conservo un bel ricordo dei miei amici, sebbene ancora oggi mia madre, ridendo, mi rinfacci la vergogna che provava sentendo la mia cadenza, e sebbene io stessa mi senta fortunata di non parlare più quel siciliano. Ciò che mi è rimasto è la capacità di capire quasi perfettamente il cosiddetto “palermitano stretto”, che io e mio fratello (reduce della stessa esperienza scolastica) imitiamo per fari i tasci. Lui, a dire il vero, con una verve tinteggiata di catanese, per via del suo lavoro che lo porta a viaggiare in Sicilia e ad assorbire accenti diversi dal palermitano. Con i suoi viaggi all’estero, ha anche imparato molto bene lo spagnolo, che usa spesso per comunicare con le aziende con cui lavora. L’inglese, lo conosce e lo utilizza occasionalmente al lavoro, ma ha un livello scolastico, il che ci porta spesso a ridere insieme delle sue tragicomiche storpiature.
Le mie medie però sono state un punto di svolta anche per l’inglese. Dell’inglese alle elementari ho solo un ricordo, felice, ossia la filastrocca nella prima pagina del mio libro giallo e viola:
In a small town,
there is a small house.
In the small house,
there is a small room.
In the small room,
there is a small box.
In the small box,
there is a BIG dream!
Ma dell’inglese alle scuole medie conservo un ricordo terribile: un “Sufficiente” in pagella il secondo anno. Persino in matematica avevo voti più alti!
Mamma, amante delle lingue, non concepiva la mia difficoltà. Diceva che dovevo fare qualcosa, di più. Ma cosa? Io l’inglese lo studiavo!
E poi il miracolo: MTV iniziò a trasmettere il videoclip di una ragazzina in t-shirt, cravatta a righe e Converse All Star che cantava in inglese. Contemporaneamente, un duro di Detroit rappava del suo sogno di scappare dalla 8 Mile Road, e al cinema usciva un film su maghetto inglese.
Insomma, complice la tipica ossessività adolescenziale, Avril Lavigne, Eminem e Harry Potter mi hanno fatto scoprire l’inglese. Non che io mi sia messa a studiarlo: cercavo i testi delle canzoni, le loro traduzioni e i loro significati, così da poterle cantare e parlarne con gli amici.
E Harry Potter? Quando ricevetti in regalo il DVD de La camera dei segreti, non contenta di vederlo in italiano, iniziai a guardarlo anche in inglese. E siccome però le parole in inglese non le capivo, decisi di impostare in inglese anche i sottotitoli (perché tanto la versione italiana la conoscevo a memoria): ascoltavo una battuta, mettevo in pausa e ripetevo le parole dei miei eroi. L’operazione andava avanti per ore, e così imparai a memoria anche The Chamber of Secrets.
I miei voti in inglese iniziarono a migliorare, e anche grazie a una nuova professoressa, più simpatica e moderna di quella precedente, da “Sufficiente” passai a “Distinto”.
Da lì la strada è stata in discesa: acclamata a scuola e in famiglia come “il genio dell’inglese”, capii di essere diventata brava, venni eletta guida turistica di un viaggio a Londra con mio padre e mio fratello, e continuai a coltivare la lingua più consapevolmente alle superiori, soprattutto al ginnasio, perché la letteratura del liceo mi sembrava di impararla a memoria.
Fast-forward al giorno degli orali di maturità:
— «Signorina, dove pensa di iscriversi all’Università?»
— «Voglio fare la Scuola per Interpreti e Traduttori»
— «Ah, quindi Lingue e Letterature straniere?»
— «No, la lingua voglio parlarla. Shakespeare mi interessa relativamente»
Mi sarebbe piaciuto studiare delle lingue “particolari” oltre all’inglese, ma purtroppo, alla Scuola per Interpreti e Traduttori di Palermo, si studiavano “soltanto” l’inglese e il francese. Ma in fondo non importava. L’importante era che parlassi senza restare impantanata in libri in italiano in cui si parlava di inglese e francese. Al colloquio di ammissione, il direttore della scuola mi disse serio: «Qui si studia, e tanto. Può raggiungere livelli molto alti, ma dovrà darsi da fare. Soprattutto perché lei non ha mai studiato il francese. Sarà dura».
E lo è stata veramente: per permettere agli studenti che non conoscevano il francese di iniziare la consecutiva e la traduzione a vista (attività propedeutica alla simultanea) al secondo semestre, la scuola aveva organizzato uno corso intensivo che si sarebbe tenuto il primo semestre. Il martedì e il giovedì quindi, dalle 8:30 alle 14:00, seguivo lezioni di lingua e grammatica francese che mi avrebbero fatto raggiungere un livello intermedio in pochissimo tempo.
Mi piaceva il francese. Ricordo la mia motivazione, e la mia euforia quando dissi alla mia migliore amica: «Je suis une étudiante de sciences de la médiation linguistique» con quella pronuncia quasi perfetta che i miei professori mi stavano donando. Ricordo con orrore il compito su tutti i tempi verbali (di tutte le coniugazioni!) svolto a metà percorso. E ricordo ancora le mie lacrime di felicità e stanchezza sulla via del ritorno a casa dopo aver svolto il compito di fine corso, quando i miei professori si congratularono con me ma io sentivo soltanto un turbinio infinito di parole confuse che mi frullavano per il cervello (sensazione che mi è ormai familiare e che arriva puntuale alla fine di ogni conferenza che interpreto).
Contemporaneamente studiavo l’inglese, rafforzavo la grammatica con tantissimi drillings, lo scritto con dettati ed expositions, e il parlato con molte sessioni di conversazione su argomenti che, ammetto, mi sembravano inutili, ma che sono in parte gli stessi che utilizzo oggi con i miei studenti di italiano.
E poi, quando sembrava giunto il momento di riposarsi, il gioco ha iniziato a farsi più duro. Il nostro obiettivo non era più quello di parlare inglese e francese ad alti livelli, ma di usarli per fare comunicare persone che non si capivano.
Dovevamo “fare” con la lingua, fare MOLTO bene, e in contesti MOLTO stressanti.
Non si trattava più di imparare il lessico quotidiano, ma di memorizzare pagine di terminologia, di linguaggio di conferenza. E al contempo, di sviluppare tecniche di interpretazione che ci permettessero di giocare con lingue che non erano le nostre e che non avremmo mai potuto usare come dei nativi, semplicemente perché non lo eravamo.
Qui ci sono due cose da sottolineare. Da una parte sicuramente la mia motivazione: è capitato spesso che i miei genitori mi sgridassero perché “studiavo troppo”. Lo studio per me stava sopra tutto e tutti. Dall’altra però, non posso dimenticare il ruolo fondamentale svolto dai miei professori, che mi hanno trattata come una potenziale collega, giudicando sempre la mia performance e mai la mia persona. Sono loro che mi hanno insegnato ad andare oltre le parole, a sfruttare la mia enciclopedia per superare gli ostacoli linguistici, a capire dal contesto, a usare registri adeguati, ad affinare le mie doti oratorie… Persino ad ascoltare, capire, tradurre, parlare, e di nuovo ascoltare, capire, tradurre e parlare, in quel processo cognitivo senza capo né coda richiesto dalla simultanea. Allo stesso tempo c’era la traduzione scritta, con cui affinavo la mia competenza nella gestione (soprattutto passiva) di generi e stili testuali, e l’esposizione costante ai media anglofoni e francofoni, perché non sia mai che un interprete non sia ben informato sulla tanto temuta attualità!
Insomma, per tre anni ho praticato l’inglese e il francese quotidianamente, ma sentivo che mi mancava qualcosa: sapevo parlare di argomenti tecnici, ma mi sarei trovata in difficoltà a scambiare quattro chiacchiere al bar a Londra o Parigi. Per questo motivo, passavo molto tempo sulle chat-room per stringere amicizia con persone inglesi, americane e francesi (purtroppo, sono queste le varianti globalmente riconosciute come standard). Ho anche passato due settimane nel Kent, rendendomi conto della differenza tra il parlare l’inglese in un contesto controllato e in un contesto in cui i parlanti usano la lingua viva.
Dopo la triennale, ho deciso con forse troppa disinvoltura di specializzarmi in Interpretazione di conferenza alla SSLMIT di Forlì: a ventun anni quindi lasciavo i miei amici, la mia famiglia, la mia terra, per “il Nord”.
Vivere a Forlì è stata un’esperienza catartica sotto molti punti di vista: non soltanto perché mi sono dovuta confrontare con metodi d’insegnamento “accademici” (avete presente l’insegnante dittatore?), ma anche perché ho iniziato a sentirmi straniera nel mio Paese. In poco tempo mi sono resa conto delle enormi differenze culturali tra il Nord e il Sud Italia. Quanto alla lingua, quante ore trascorse a discutere con i miei coinquilini settentrionali delle nostre differenze linguistiche!
È stato a Forlì che, con il contatto con diverse varietà d’Italiano e svariate (e fallimentari) ore di Dizione all’università, sono diventata più consapevole dei miei regionalismi, ma anche del valore sociale attribuito alla mia varietà di italiano. E quest’ultimo aspetto non è stato affatto facile da affrontare: mi sono sentita dire dai professori che avevo difficoltà ad abbandonare le mie vocali aperte e le mie esse intervocaliche sorde perché «i siciliani sono eccessivamente attaccati alle loro radici», quando lo stesso trattamento non veniva riservato ai toscani che aspiravano la ci dura e rendevano come fricative la gi e la ci dolci. In altri casi, suscitavo un riso a volte innocente, a volte malizioso per i miei «Assai», «Esci la carne», «Vero?» (con la e aperta!). Insomma, il mondo intorno a me mi diceva che il mio italiano non era quello corretto.
Un po’ per autodifesa, un po’ per la necessità di parlare una variante meno regionale in cabina, il mio italiano ha assunto alcune caratteristiche di quello parlato dalle persone con cui ero a più stretto contatto: raga’ è diventato rega, o vez (vecchio, in bolognese), grazioso è stato sostituito da carino, le mie e si sono fatte più [‘kjuze]. Le doppie, temo, sono rimaste sempre le stesse.
In compenso però, quando scendevo, tutti mi facevano notare che o parlavo troppo come «quelli del Nord» (e allora ero una traditrice della mia terra!) o calcavo troppo l’accento siciliano. Chissà, forse volevo sentirmi ancora più a casa.
Sta di fatto che lo sforzo quotidiano di usare un italiano meno regionale e lo spaesamento causato dal non sentirmi a casa né a Forlì né a Palermo hanno modificato così in profondità la mia lingua che negli anni successivi, anche dopo essere scappata a gambe levate dalla Romagna per tornare nella mia bella isola, molte persone mi hanno chiesto di dove fossi.
Grazie ai miei studi, dispongo di una competenza professionale completa nelle mie lingue di lavoro, ma non solo: due codici in più corrispondono anche a due maschere che posso indossare quando voglio diventare qualcun altro, assumere un’altra identità: una più schietta, meno mediterranea, quando parlo in inglese (mi piace definire questa lingua come una lingua “quadrata” per la sua precisione e la sua logica) e una un po’ più je-m’en-fichiste, bobo, quando parlo in francese. Mi piace sentire come cambia il mio timbro di voce quando parlo una lingua straniera, e sebbene a volte fatichi ad allenare il parlato, quantomeno la comprensione è praticamente totale nelle varietà standard. Sicuramente, lo sviluppo del parlato è stato agevolato dall’aver mantenuto molti rapporti con amici d’oltreoceano, e l’anno scorso, dall’aver passato nove mesi in Francia. Sebbene interpreti di rado, parlare due lingue quasi alla perfezione e un corso annuale in comunicazione interculturale a Forlì mi hanno dato competenze che mi accompagnano ormai da diversi anni nei settori più disparati della vita, e non solo professionale.
Per l’appunto, ricordate che più sopra avevo detto che avrei voluto studiare delle lingue “particolari”, diverse dal francese? Tra queste, quella che mi incuriosiva di più era l’ebraico. Per uno strano scherzo del destino, circa un anno fa ho finito per innamorarmi di un ragazzo che parla sì una lingua semitica, ma forse quella più politicamente contrapposta all’ebraico: l’arabo.
In realtà il mio approccio con questa lingua è iniziato durante la mia esperienza d’insegnamento volontario al Centro Astalli di Palermo alla fine del 2016. Molti miei studenti erano unicamente arabofoni, e quindi ho avvertito la necessità di imparare alcune parole comuni per gettare quantomeno le basi della comunicazione. Da lì è nata la mia curiosità, e mi sono messa in testa che dovevo imparare questa lingua per ampliare il mio bagaglio culturale, ma anche per accedere a una lettura del mondo meno centrata sull’Occidente. Ho trascorso mesi a cimentarmi nella scrittura dell’alfabeto, studiando da autodidatta e sentendomi come una bambina che impara a scrivere. Dopodiché, ho iniziato a prendere lezioni private, con scarso successo devo dire, perché il mio approccio fortemente comunicativo alla lingua mal si addice all’AMS, che è una specie di lingua veicolare che nessun parlante arabo utilizza quotidianamente.
In questo momento della mia vita, uso l’arabo in contesti di studio fortemente controllati. Anche a causa della mancanza di tempo da dedicarvi, non sono ancora in grado di leggere e capire un articolo di giornale, e la presenza “comoda” del mio ragazzo egiziano non aiuta, dato che anche sul suo repertorio linguistico ci sarebbe da aprire un lungo capitolo! Cerchiamo di parlare insieme in arabo classico ed egiziano, ma la forza dell’abitudine ci riconduce sempre verso l’italiano.
Sicuramente però, il mio contatto con l’arabo e con l’italiano a volte ingarbugliato di lui modifica il mio italiano quando siamo insieme.
Innanzitutto ho quasi del tutto bandito il dialetto (se non per l’onnipresente mischino). Amunì si è trasformato in yalla, che ormai mi scappa anche con i miei amici italiani. Ti amo si alterna con baHebek, amore con Habibi, qalbi o ‘albi, nell’accento della sua regione, scimunitu con Homaar. Quando siamo insieme, il mio italiano si semplifica molto soprattutto a livello strutturale (fino a poco tempo fa i pronomi erano sempre sciolti, e frasi come «Hai parlato con lui?» sostituivano sempre «Gli hai parlato?»). Se passiamo molte ore insieme, involontariamente mi capita addirittura di calcare i suoi errori!
Insomma, come temevo, scrivere la mia autobiografia linguistica è un esercizio lungo e complicato: rifletto da due giorni e scrivo quasi ininterrottamente da una giornata.
Io sono le lingue che parlo.
Le mie lingue sono il mio passato, il mio presente e, spero, il mio futuro.
Sono i miei ricordi di bambina, le mie fatiche all’università, sono i miei amori passati (sì, qualcuno ve l’ho risparmiato) e i miei affetti presenti.
Sono persone: Mohamed, Tom, Eléonore, Agatha, Khalid, Richard, Thomas, Massimo (mi correggeva sempre i congiuntivi quando eravamo piccoli!), ma anche Presidenti della Repubblica francese, europarlamentari, candidati alle presidenziali americane (quanto odiavo non saper star dietro alla velocità di Hillary Clinton!).
Le mie lingue sono navi, che mi hanno fatto sognare paesi lontani, e che in alcuni casi mi ci hanno addirittura portata.
D’altra parte, cu avi lingua passa u mari.
Una opinione su "Detto in altre parole… La mia autobiografia linguistica"